sto seduta e mi guardo intorno. ho l'ansia: non sono abituata a prendere i mezzi e tutto ciò mi destabilizza. inforco gli occhiali e cerco nella legenda in alto la mia fermata. sono distratta. ma attenta. guardo. guardo sempre chi mi sta intorno, quando sono tra tanta gente. per curiosità. per farci degli psicologismi da film rosa. per il rifiuto di pensare ai fatti miei. per la voglia di conoscere le persone attraverso un movimento inconsulto del viso, uno sguardo fugace, una giacca troppo corta, un anello troppo vistoso e con tutte queste cose immaginate immaginarci la loro storia. sto seduta e mi guardo intorno, ancora. mancano cinque fermate e poi tocca alla mia. cerco uno sguardo sereno che calmi la mia rabbia. un sorriso placido che plachi le mie tristezze. un'espressione inquieta che mi faccia pensare ad altro. cerco qualcuno con cui condividere tutto il marasma che mi porto dietro come il più pesante dei bagagli. c'è tanta gente intorno a me. gente di colore e pensionati. operai e massaie. donne incinte e uomini incravattati. studenti e pendolari. padri. madri. ognuno che si fa i fatti suoi. ognuno con lo sguardo dentro la sua storia. e io sono lì, dentro tutte quelle storie. all'improvviso qualcosa richiama la mia vista. un pugno che mi rivolta lo stomaco: una signora menomata con un occhio cieco. distolgo subito lo sguardo. che visione, penso. poverina, penso ancora. che schifo è l'ultimo dei miei pensieri. forse il più vero. cerco di non guardare e più sposto la faccia cercando qualcosa che mi distragga da quell'orripilanza e più il collo, gli occhi, la mente si concentrano su quello spettacolo così mostruoso. d'incanto il mio campo visivo si allarga a dismisura. riesco a guardar di lato come le mosche e se ci provassi anche dietro. la signora intanto si è accorta del mio ribrezzo e mi guarda. ha notato il mio imbarazzo, mi chiedo. cerco di far finta di niente. giocherello con il cellulare che sotto le gallerie non prende mai. faccio finta che sto facendo i conti sulle punte delle dita: uno, due, tre cercando di far intendere alla signora che ho altro a cui pensare che non al suo occhio così ributtante e menomato. la signora mi fissa. e io sono sempre più imbarazzata. guardo in alto, come negli ascensori quando ti costringi a leggere le etichette che riportano il peso in tonnellate. guardo fuori dai fienstrini. mi guardo le mani. e poi le scarpe. che brutte scarpe che ho, penso. ma proprio non ci riesco e ridò una sbiriciatina a lei e al suo occhio. e lei, naturalmente, mi sta osservando. mi scruta. mi squadra. mia esamina. forse mi giudica anche. arrossisco. tossico che per poco non mi strozzo. penso alle mie disgrazie. e alle mie gioie. penso a dio sperando che scaraventi su di me un fulmine per salvarmi o che mandi un angelo custode per dirmi che sono incinta. intono anche un verso di "vecchio scarpone quanto tempo è passato, quanti ricordi mi fai vivere tu...". ma lei è lì. fissa su di me. e io sono in balia del suo occhio catalizzatore. del cervello che non riesco a padroneggiare. dell'imbarazzo che non riesco a nascondere. degli occhi che non riesco a domare. sono lì. seduta al mio posto impaurita come nel giorno delle interrogazioni di latino. seduta e sempre più piccola in un angolo dell'ultimo scompartimento di quel treno. sono vigliacca lo ammetto. ho alzato i tacchi e me ne sono andata tre fermate prima. due passi a piedi fan sempre bene alla salute!
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