"I primi singaporiani che vidi dal treno erano come quelli di una volta: ciabatte di plastica, calzoncini neri e maglietta bianca, esattamente come il protagonista di una delle prime storie che sentii quando ci venni a vivere nel 1971. Un medico aveva, fra i suoi pazienti, un vecchio cosi', semplice e dimesso, che gli si sedeva nella sala d'aspetto con i piedi sulla poltrona e la maglietta arrotolata sulla pancia. Il medico, pensando che fosse un poveraccio, lo faceva pagare meno degli altri e a volte gli risparmiava addirittura il conto, finche' un giorno l'infermiera, guardando giu' dalla finestra, non vide quel vecchio salire su una Mercedes con autista che lo aspettava. Era l'uomo che controllava il commercio del riso in tutta la citta'.
Per me quel vecchio rimane l'epitome del cinese della diaspora: sicuro di se' ma poco appariscente, potente ma ritirato e modesto per tema di ingelosire gli dei o i governanti. A quel modo ne sono rimasti pochissimi. I cinesi delle nuove generazioni hanno solo paura di non essere presi per ricchi e si mettono addosso tutto quello che da' loro sicurezza e - credono - rispettabilita'..."
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